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Aspenia 2: Giochi Pace e Guerra. Olimpiadi fra Miti e Realtà. Geoeconomia dello Sport. L'Europa Va Difesa

Il Sole 24 Ore Libri

Milano, 2024; br., pp. 227, cm 16x23,5.

EAN13: 9791254834497

Testo in: testo in  italiano  

Peso: 0 kg


Aspenia, la rivista trimestrale di Aspen Institute Italia diretta da Marta Dassù, è stata fondata nel 1995 e, dal 2002, è pubblicata da Il Sole 24 Ore. Al numero in uscita alla fine del mese di giugno 2024 "Giochi di pace e di guerra" hanno contribuito tra gli altri Andrea Goldstein, Antonio Missiroli, Eva Cantarella, Ettore Miraglia, Simon Chadwick, Sushmita Pathak, Silvia Camporesi, Stefano Pontecorvo, Julian Lindley-French, Stefano Stefanini, Carlo Jean, Nathalie Koch, Patrick Clastres, Maria Rita Pierleoni, Daniele Popolizio. L'origine delle Olimpiadi riflette il connubio tra religione, mitologia e culto del corpo, fondamenta del mondo ellenico e invece osteggiato da quello romano, fino alla soppressione dei Giochi da parte di Teodosio nel 393. Ci vorranno quasi 1500 anni prima che il barone Pierre de Coubertin ne proponga la ripresa nel 1896. Per Aspenia esistono due modi di guardare alle Olimpiadi. Il primo come metafora di una sorta di geopolitica sportiva: i giochi di pace avvengono oggi in tempi di guerra. Con le loro conseguenze: basti pensare solo alla difficoltà di trattare la partecipazione degli atleti russi (senza bandiera nazionale). Il secondo è l'economia di un grande evento organizzativo, di straordinario impatto mediatico e con forti implicazioni di business. E soprattutto: conviene ancora organizzare un'Olimpiade? Riconoscendo il rischio che il modello tradizionale dei Giochi non sia più sostenibile, il Comitato olimpico internazionale (CIO) ha intrapreso una serie di riforme. Sport e competizioni olimpiche sono, quindi, metafora dello scontro tra individui e gruppi, regolato in modo preciso e rigoroso, con una dinamica che, in molti sensi, mima la selezione darwiniana e premia soltanto i migliori. Qui il merito conta davvero. Ecco perché le autorità sportive sono sempre più impegnate in una gara a inseguimento contro la pratica del doping. Aggiungendo poi le controversie sul professionismo e quelle sul metodo corretto di presentare il medagliere - la gerarchia delle nazioni - si arriva facilmente a comprovare la tesi di George Orwell sullo sport come simulazione della guerra. I conflitti scatenati dall'invasione russa dell'Ucraina e dall'attacco di Hamas a Israele continuano sotto i riflettori, quelli che insanguinano altre regioni del mondo - in particolare Sudan, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Siria e Myanmar - lo fanno nell'oblio generale. Per quanto si possano amare le Olimpiadi, è chiaro che lo sport non può avere un potere salvifico, né è ragionevole - e forse nemmeno lecito - chiedere allo sport di realizzare ciò che la politica non riesce a ottenere. Come per ogni mega evento, i Giochi pongono ovviamente il quesito ineludibile del rapporto costi/benefici. Con un quadro deludente, perché i costi sono sempre lievitati, diventando un fardello per il paese ospitante, e perché in molti casi gli investimenti nelle infrastrutture sportive hanno lasciato in eredità "elefanti bianchi". Vale anche qui l'analogia con la politica internazionale: le ragioni del prestigio e del soft power sovrastano spesso le considerazioni strettamente economico-contabili. Gli interessi nazionali e i benefici intangibili prodotti dalle Olimpiadi non sono misure oggettive e non hanno una natura pienamente quantificabile. Lo sport professionistico finanziato dalle grandi aziende e dai governi era originariamente di marca occidentale, ma proprio come il capitalismo, invece di essere una manifestazione dell'"egemonia occidentale", è diventato un grande ibrido. Ha ormai, da molti anni, caratteri definibili come "meticci" - basti pensare al Brasile nel calcio - e, quindi, molto diversi dal contesto culturale che inventò e praticò il colonialismo. I paesi che teoricamente fanno parte del Sud globale lo sanno perfettamente, ma possono fare leva sui sensi di colpa dell'Occidente e sulle sue stesse idiosincrasie - fino agli estremi della cancel culture - per guadagnare punti in chiave di soft power. C'è poi un'obiezione più specifica alla tesi "rivendicativa" degli eventi sportivi come specchio della competizione Nord-Sud: lo sport professionistico e la sua monetizzazione attraverso gli sponsor e i mezzi di comunicazione sono una forma di globalizzazione che però non ha mai "deciso" se essere un processo di espansione dei valori occidentali o diventare un suo superamento. È, quindi, rimasta in mezzo al guado e vive oggi una sua frammentazione, che potrebbe riflettersi sulle Olimpiadi del futuro. Le Olimpiadi francesi si tengono in un momento politicamente importante e rischioso per l'UE, subito dopo il voto per il Parlamento europeo e prima dell'insediamento della nuova Commissione, ma anche in un contesto internazionale che vive crisi acute e che verrà fortemente condizionato dall'esito delle elezioni americane. Dato il livello di ambizione diplomatica che la Francia ha sempre avuto, è chiaro che i Giochi sono visti da Parigi come la manifestazione di un modello organizzativo e di una "way of life" franco-europea. Al di là della forte simbologia delle Olimpiadi alcuni ingredienti essenziali del "modello europeo" vanno però oggi profondamente ripensati. L'imperativo della difesa comune dovrebbe logicamente produrre una forte spinta alla condivisione e aggregazione delle risorse per la sicurezza, proprio mentre potenze esterne come Cina e Russia tentano sistematicamente di dividere il vecchio continente: sia dall'esterno sia dall'interno, la coesione europea è messa costantemente alla prova. Se c'è un appuntamento olimpico che evoca rischi di questo tipo, l'edizione 2024 è sicuramente un "case in point". Ed è, quindi, una sfida da vincere: non solo per gli atleti migliori, ma per la credibilità dell'Europa

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