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A luce spenta

Di Carlo Edizioni

Reggio Emilia, 2023; br., pp. 181, cm 15x21.

EAN13: 9791281201460

Periodo: 1800-1960 (XIX-XX) Moderno,1960- Contemporaneo

Testo in: testo in  italiano  

Peso: 0.34 kg


“A luce spenta”, di Felicitas Carman, a prima vista, sembra una narrazione diaristica, come l’autrice stessa definisce la sua opera, dei primi mesi in cui il Covid-19 si è diffuso in tutta Italia colpendo la popolazione impreparata a un evento di questa portata. Infatti, ci sembravano trascorsi secoli dall’ultima pandemia, l’influenza spagnola, del 1918-1920, e, altrettanto tempo pareva trascorso dal 2003, l’anno della SARS, e dal 2009, anno in cui ci fu un nuovo allarme con l’influenza suina, virus che si è sviluppato principalmente nel continente americano. Ma, si sa che l’uomo dimentica velocemente se gli avvenimenti non lo coinvolgono in maniera diretta. Ebbene, il Covid-19 si è preso tutta la nostra attenzione, dapprima, poi i nostri spazi, mentali e fisici finendo per invadere le nostre case, le nostre famiglie, la nostra esistenza. Ognuno di noi ha dovuto attingere a forze interiori, che prima di allora nemmeno sapeva di contenere, per andare avanti mentre il mondo intero sprofondava nel silenzio più totale, nel buio. “A luce spenta”, quindi, come si evince già dal titolo, è il fotogramma personale dei primi mesi in cui il Covid-19 è apparso in Italia e nella vita quotidiana delle persone, compresa quella dell’autrice che narra di persone a lei care colpite dalla malattia, di familiari lontani, di una città, Piacenza, che la accolse con calore e che di quella atmosfera ormai conserva appena il ricordo. È una riflessione sull’assenza di suoni e di colori: il mondo, fuori, si è fermato portando quel vuoto anche all’interno delle case. Non si può più allestire il mercato rionale perché sono vietati gli assembramenti, i negozi chiudono per assenza di clienti, i mezzi pubblici sono dimezzati e la capienza è contenuta, fino al fermo totale di ogni attività: nasce la “distanza sociale”, un neologismo che va a gravare ulteriormente sull’aspetto psichico-antropologico contemporaneo.
L’autrice, con parole semplici che tratteggiano una quotidianità violata, si rivolge al vissuto di ognuno di noi. Per la prima volta ci ritroviamo nei gesti, nelle abitudini, nei pensieri, nelle lacrime dell’altro perché il Covid-19 ci ha reso quello che, in realtà, noi siamo sempre stati, ovvero: tutti uguali. Attraverso la narrazione giornaliera delle “cose di tutti i giorni”, affiancate all’incredulità, alla paura, al dolore, di “qualcosa più grande di noi”, l’autrice fissa sulla pagina non il ricordo di quei giorni terribili, perché il ricordo purtroppo è e rimarrà indelebile nelle nostre menti e nei nostri cuori, ma la sensazione di angoscia, la paura, lo sconforto, di chi è di fronte all’ignoto, insieme all’incredulità stupefatta di chi si trova in una situazione che non sembra presentare vie di fuga, che non dipende dalla nostra volontà, anzi, ne è esente. E lo fa con un sorriso, a volte amaro, a volte dolce, con la sua personalità solare che, a tratti, emerge dal buio delle pagine e questo spiraglio di luce è sufficiente per illuminare la speranza che ancora, imperterrita, vuole accompagnare il nostro cammino.

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