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Metaponto e l'Europa Tra Settecento e Ottocento. L'architettura antica nella terra incognita

Libreria Editrice L'Erma di Bretschneider

Roma, 2023; br., pp. 182, ill., cm 21x26.
(HeRMeS. Heritage, Restauro Materia e Storia. 3).

collana: HeRMeS. Heritage, Restauro Materia e Storia.

ISBN: 88-913-2795-6 - EAN13: 9788891327956

Soggetto: Storia dell'architettura

Periodo: 1400-1800 (XV-XVIII) Rinascimento

Luoghi: Europa

Testo in: testo in  italiano  

Peso: 1 kg


«Métaponte est un désert et on y arrive par le désert». Per l’archeologo francese François Lenormant, nel 1879, il sito dell’antica colonia greca era una terra incognita, lontana in un territorio ormai desolato dove un tempo i Sibariti fondarono una fiorente città, avamposto acheo contro l’espansione della rivale Taranto. Canonizzata verso la metà del Settecento, l’attenzione europea per il mondo ellenico orienta inedite ricerche sui più inesplorati territori della Megál? Hellás, spingendo gli itinerari di viaggio verso sud, lungo le coste mediterranee peninsulari alla ricerca della primordiale razionalità dei templi greci, nello specchio del mito delle origini dell’architettura. Se Paestum, con i suoi monumenti dorici, dispersi in un deserto di silenzio e abbandono, appariva come la porta straordinariamente evocativa di quel mondo, ancora agli inizi dell’Ottocento, spingersi nel sud mediterraneo e classico più remoto della Lucania ionica e della Calabria era un’impresa davvero ardua. Muoversi in quella natura ostile, tra impenetrabili selve e strade accidentate, scoraggiava gran parte dei viaggiatori. Nondimeno, i pochi architetti e archeologi decisi e sfidare la sorte, erano ricompensati dalla scoperta di paesaggi fermi nel tempo, dove le sparute rovine di colonne sommerse da paludi o stagliate nel deserto di pianure e coste disabitate, tratteggiavano una sorprendente immagine, assimilabile in qualche modo a un ambiente originario, come spesso annotavano nei loro taccuini. Per molto tempo, il paesaggio archeologico di Metaponto continuava a rimandare all’immagine storicizzata delle Tavole dei Paladini, quelle quindici colonne doriche, dove più tardi l’archeologia riconoscerà un Heraion extraurbano, ma che nel corso dei secoli erano state le laconiche sentinelle della memoria della colonia achea, ritratte nel monumentale Voyage dell’abbé de Saint-Non (1781-1786). Sarà più tardi il primo tentativo di scavo sistematico archeologico del duca di Luynes (1828), illustrato nei disegni dell’architetto Joseph Frédéric Debacq che l’aveva affiancato nell’impresa, a consacrare Metaponto in Europa per il clamore destato dalla scoperta delle terrecotte colorate, presso il tempio allora detto Chiesa di Sansone, tempestivamente registrata nelle prime teorie sulla policromia dell’architettura antica come fece Jacques Ignace Hittorff che le confrontò con i reperti da lui ritrovati a Selinunte, ancor prima della comparsa a Parigi di Métaponte del Luynes e Debacq (1833). Presentati all’Académie des Beaux-Arts già nel 1829, presto gli studi del Luynes fermentarono in nuove ricerche compiute da architetti e archeologi italiani e stranieri, da Sante Simone a Michele Lacava o negli studi metrologici di Auguste Aurés, come anche nelle ‘divinazioni’ di Charles Normand (1891) e fino a Robert Koldewey e Otto Puchstein che, sul volgere dell’Ottocento, inserivano l’archeologia di Metaponto nella più ampia esegesi dei templi della Magna Grecia. Aggiornate ricerche in dissonante contrasto con un’immutata marginalità in cui, nondimeno, trova spazio la liturgia del viaggio romantico. Le dimenticate rovine di Metaponto, in quelle terre rese ancor più lontane dal silenzio e dall’abbandono, ispiravano un’esperienza interiore del paesaggio, “un’analitica del Sublime” dove l’indomabile Natura continuava a prevalere sull’uomo e su ogni sua azione. Come ebbe a scrivere lo scrittore e giornalista George Gissing nel suo By the Ionian Sea (1901): «E tuttavia, qui come lì » ? annotava comparando le silenti rovine delle Tavole dei Paladini di Metaponto ai monumentali templi pestani ? «davanti a simili resti della gloria passata degli uomini, si è posseduti da una desolazione immemoriale. La sensazione di un pathos che sopraffà e stringe in modo irrimediabile la coscienza quando si mostra il senso della storia, che sempre soverchia e ammonisce qualsiasi presunzione umana. Sommersa in un silenzio che voce umana non ha più il potere di rompere, tra questi resti del passato la vitalità eterna della natura trionfa ormai indifferente sulla grandezza di uomini che il tempo ha dimenticato».

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