La Nekyia Omerica (Odissea XI) nella traduzione di Cesare Pavese
Edizioni dell'Orso
A cura di Cavallini E.
Testo Multilingua.
Alessandria, 2015; br., pp. 112, cm 17x24.
(I Libri di "Levia Gravia").
collana: I Libri di "Levia Gravia"
ISBN: 88-6274-598-2 - EAN13: 9788862745987
Periodo: 0-1000 (0-XI) Antico,1000-1400 (XII-XIV) Medioevo
Testo in:
Peso: 0.26 kg
Negli anni del dopoguerra, mentre ancora è impegnato nella stesura dei Dialoghi con Leucò, Pavese riprende in mano grammatiche e dizionari di molti anni prima e ricomincia a "rosicchiarsi" Omero. In parte si tratta di canti non tradotti in precedenza (come Iliade V, X e XV), ma la nuova versione della Nekyia è evidente segno della pervicace volontà di misurarsi proprio con questo Omero così atipico, poco battagliero e profondamente mistico, incline a raccontare vicende tragiche (come la colpa di Edipo ed Epicaste, ma soprattutto la raccapricciante fine di Agamennone) piuttosto che epiche. Un Omero perfino antieroico, che fa dire ad Achille: "Vorrei campagnolo essendo servire a un altro... piuttosto che a tutti i morti defunti regnare" (vv. 489-491). Ma soprattutto, un Omero che riporta, in forma poeticamente trasfigurata, le credenze religiose degli antichi Greci sulla vita e sulla morte. L'Ade è una presenza importante nei Dialoghi, soprattutto ne L'inconsolabile, che tratta di un'altra e ancora più straziante discesa agli Inferi, quella di Orfeo; ed è menzionato in due note del Diario, entrambe del 1947. Appare probabile che la traduzione della Nekyia sia posteriore di alcuni mesi a questo periodo, dato che essa quasi certamente presuppone l'invio, da parte di Mario Untersteiner, del commento a Odissea XI pubblicato per i tipi di Sansoni agli inizi del 1948.
Non destinate alla pubblicazione, ma tutt'altro che banali o scolastiche, le traduzioni di Pavese da Omero, in particolare questa della Nekyia che oggi proponiamo, rappresentano la modalità pavesiana di rapportarsi con i classici greci, di cui egli avrebbe desiderato acquisire approfondita conoscenza. Ma, come avverte lo stesso Pavese in uno dei suoi ultimi saggi, "possedere significa distruggere, si sa": e forse proprio per questa ragione, quel mistero e quel mito non volle mai possederlo fino in fondo, o almeno, non fino al punto di violarne l'originaria aura 'sacrale'.
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