L'occhio del nemico. Fotografie austro-ungariche. Ediz. italiana, inglese e tedesca
Talamo Giuseppe
Gangemi Editore
Edited by Pizzo M.
Italian, English and German Text.
Roma, 2008; hardback, pp. 160, ill., cm 22,5x25.
(Arti Visive, Architettura e Urbanistica).
series: Arti Visive, Architettura e Urbanistica
ISBN: 88-492-1453-7 - EAN13: 9788849214536
Subject: Collections,Historical Essays,Photography
Languages:
Weight: 0.868 kg
Kann man denn Kriegsfotographien als Kunst betrachten? Dieses Kernstück von Fotographien, die von Spezialeinheiten des österreichischungarischen Heeres aufgenommen wurden, scheint diese Frage zu bejahen.
Can war shots be artistic? These photographs taken by a special corps of the Austro-Hungarian army seem to provide an affirmative answer.
INTRODUZIONI AL VOLUME
LA GRANDE GUERRA I secoli non hanno tutti la stessa durata e cento anni sono una misura fissa e quindi astratta. Lo spartiacque tra l'Ottocento e il Novecento è costituito dalla prima guerra mondiale, la "grande guerra" come venne chiamata per le dimensioni che aveva via via assunto, per il coinvolgimento di milioni e milioni di uomini, per le gravissime perdite umane subite da tutti i belligeranti. La conoscenza di un evento che mutò radicalmente i rapporti di forza tra i maggiori Stati, provocando in Europa il crollo di tre imperi multinazionali - quello asburgico, quello zarista e quello turco - e segnando la fine della centralità dell'Europa nei rapporti internazionali, ha costituito e continua a costituire un problema centrale per gli storici del XIX e del XX secolo; l'analisi della crisi di alcuni Stati liberali e dell'affermazione di Stati totalitari nonché delle stesse lontane cause del secondo e più devastante conflitto mondiale deve necessariamente partire dalla guerra 1914-1918. L'Italia nei primi lustri del Novecento stava vivendo la sua prima rivoluzione industriale con la trasformazione di una società prevalentemente contadina in una società che iniziava a industrializzarsi, che conservava sostanzialmente i suoi valori risorgimentali, anche se a partire dagli anni 80 avevano preso vigore movimenti politici basati su una netta contrapposizione di classe. Sulla necessità e sull'opportunità di partecipare al conflitto l'Italia si divise tra neutralisti e interventisti, i due schieramenti che erano profondamente divisi al loro interno. C'erano neutralisti contrari alla guerra per principio (i cattolici), quanti ritenevano la guerra un "affare della borghesia" (socialisti massimalisti), e coloro che temevano che il conflitto avrebbe potuto scatenare lo scontro sociale e quindi mettere in pericolo in Italia lo stato liberale (Giolitti).D'altronde erano interventisti sia i nazionalisti che dalla liberazione delle terre "irredente", a partire da Trento e Trieste, erano giunti ad auspicare l'allargamento dei confini a terre abitate da popolazioni di lingua tedesca o slave, sia i democratici (da Salvemini a Bissolati) che intendevano attenersi all'applicazione del mazziniano principio di nazionalità e ai valori risorgimentali. Quest'Italia entrata in guerra divisa ritrovò la sua unità dopo la sconfitta di Caporetto: "il rovescio dell'ottobre 1917 (ha scritto Arturo Carlo Jemolo) fu per la politica interna evento altrettanto fortunato quanto era stato infausto come vicenda militare". La vittoriosa conclusione del conflitto suscitò esaltazione ed euforìa in tutta Italia, com'era naturale dopo una così lunga e difficile prova. Il paese sembrò ritrovare nel successo quella concordia e quella solidarietà che gli avevano consentito di superare la crisi del 1917. Ma un osservatore attento, che si fosse spinto nella sua analisi al di là di quelle manifestazioni pur autentiche e umanamente comprensibili, si sarebbe reso conto ben presto che anche in quel primo gioire spontaneo e immediato si potevano agevolmente notare differenze profonde che derivavano non tanto da temperamenti diversi - e quindi da un diverso modo di esprimere gli stessi sentimenti- quanto da aspettative e da speranze opposte, fondate su contrastanti valutazioni della nuova realtà e destinate quindi a sfociare in programmi politici inconciliabili. "Il distacco dal Risorgimento s'era consumato nell'ultima guerra del Risorgimento", come disse a Trento nel 1963, nel 41° congresso di storia del Risorgimento italiano, Vittorio De Caprariis pochi mesi prima della sua prematura scomparsa. "È finita, o sta per finire una guerra. Ne comincia un'altra. Più lunga, più aspra, più spietata", scriveva il 9 novembre 1918 Gaetano Salvemini. "La guerra non è finita", confermava Ugo Ojetti a D'Annunzio il 27 novembre dello stesso anno. Di "profonda rinnovazione" parlava Mussolini a D'Annunzio qualche settimana più tardi e a una "rinnovazione sociale ed economica" accennava Nitti alla Camera il 26 novembre 1918. Lo stesso Luigi Einaudi, certo lontano da posizioni dannunziane o salveminiane, sulle colonne del "Corriere della sera", auspicava il ritorno ai metodi di Cavour, al liberalismo e all'iniziativa privata polemizzando con Giolitti e deprecando la degenerazione politica seguita alla caduta della vecchia Destra. Ben consapevole del dramma cui stava andando incontro la vecchia Europa Benedetto Croce il 5 novembre del 1918, da un paesello alpino in provincia di Torino, volgeva il pensiero "alla desolazione del mondo tutto, tra i popoli nostri alleati e tra i nostri avversari, uomini come noi, desolati più di noi, perchè tutte le morti dei loro cari, tutti gli stenti, tutti i sacrifizi non sono valsi a salvarli dalla disfatta". Audiatur et altera pars : dopo il crociano richiamo agli eroi shakespeariani e alla loro profonda e pensosa umanità, questa citazione dalla Medea di Lucio Anneo Seneca - che "uno storico allora studente in grigioverde"1, soleva ripetere ai giovani che volevano dedicarsi alla ricerca storica - ci sembra adatta a chiudere questa rapida riflessione sul primo conflitto mondiale, a 90 anni dalla sua conclusione, in un catalogo di prezioso materiale fotografico dell'esercito austro-ungarico.
Giuseppe Talamo
L'OCCHIO DEL NEMICO - FOTOGRAFIE AUSTRO-UNGARICHE DELLA GRANDE GUERRA Può la fotografia di guerra essere un fatto artistico? Questo nucleo di fotografie realizzate da reparti specializzati dell'esercito austro-ungarico sembra poter rispondere in senso affermativo a questa domanda. L'elegante semplicità delle inquadrature, la classicità degli atteggiamenti e delle pose, la nitidezza della luce che scolpisce i particolari quasi lenticolari della natura, lo sguardo partecipato e solenne, presuppongono una cultura estetica non comune specie se raffrontato con le fotografie realizzate dai reparti italiani dove prevale un taglio più documentaristico e di reportage fotografico. Nelle fotografie italiane lo scopo è quello di fare cronaca, di documentare i luoghi, le attività, dare il senso del tutto, evitando sempre il particolare, che là dove affiora è del tutto casuale. In queste fotografie al contrario è sempre evidente la preoccupazione di analizzare con precisione il dettaglio. E anche lì dove il soggetto sembra indistinto e confuso, come nel caso di alcune fatte nel buio delle trincee o delle camerate, avanza prepotente il senso emotivo del luogo, del momento, della condivisa partecipazione hic et nunc. Le fotografie diventano perciò il filtro attraverso il quale confrontarsi con una diversa concezione dell'arte, un modo di vedere il reale. Una serie di ritratti fotografici. Si tratta di soggetti non identificati. Il fotografo si sofferma sui volti, sulle espressioni dei singoli soldati, sulle divise, cogliendo il tutto con esatta nitidezza. Ritratti di soldati. I soldati sono descritti all'interno di stanze o in quinte arboree messe a fuoco con analitica precisione. L'uomo ritorna ad essere un elemento della natura, parte integrante del paesaggio. Viene così recuperata una tradizione estetica che affonda le sue radici in Dürer e nei fiamminghi. La guerra sembra lontana e se ne coglie un meditato riverbero solo osservando le armi, le medaglie sulle divise, i pugnali. La fotografia incornicia vedute, apre finestre sul fronte della prima guerra mondiale, inquadra gli scatti. Attività Quali sono le attività illustrate da queste fotografie? La risposta potrebbe essere : il prima e il dopo. Prima: la truppa negli alloggi e sui pagliericci stretti delle trincee; l'austerità borghese delle stanze degli ufficiali; pittori e scultori intenti a ritrarre i protagonisti - e per traslato i soldati ritratti dal fotografo -; il taglio dei capelli; le docce e gli svaghi del bagno ristoratore; la fumata di una sigaretta stesi sulla branda; le attività di lavoro nelle retrovie (la preparazione del pane, la macellazione, la falegnameria). Dopo: le corsie dell'infermeria, i campi di prigionia, i cimiteri. Particolari Le fotografie ritraggono particolari di stanze, di corsie di ospedali, di trincee. L'obiettivo del fotografo si sofferma su particolari: una stufa, un letto, una catasta di legna, una scala, una feritoia nella roccia, il riflesso di una medaglia. La volontà è quella di descrivere, analiticamente, selezionando i particolari, facendo posare lo sguardo con insistenza su aspetti meno evidenti, che affiorano solo se diventano i protagonisti della fotografia. Gli scatti sono solo apparentemente casuali. Si tratta di inquadrature posate con studiata meticolosità: sui letti non si increspano pieghe, le stufe sono ben pulite e nuove e suggeriscono ambienti caldi e confortevoli. La fotografia inventaria e descrive, registra il reale. Città Alcune fotografie ritraggono vie e piazze di città. Per un unico soggetto due orientamenti. Da una parte la volontà di illustrare la vita quotidiana che trascorre durante la guerra in assenza della guerra: le occupazioni sono quelle usuali, le vie e le piazze sono ritratte affollate di persone intente a passeggiare, ad oziare sulle porte o a chiacchierare. La normalità. Altre fotografie indugiano invece nei disastri dei bombardamenti, nelle case distrutte, nell'invasione dei militari che modifica lo spazio urbano. Le vie sono deserte di civili, si vedono solo soldati, autoveicoli, cavalli e cannoni. Una immagine su tutte: il cielo sopra la città di Trieste solcato da un aereo di guerra.
Marco Pizzo